martedì 20 marzo 2012

KACHERI




Il sole è quasi basso. In lontananza non si vede altro che una fitta vegetazione, sotto i suoi piedi, uno strapiombo. La roccia è scura e i raggi che la colpiscono la rendono rossa e vivida come il fuoco in un gioco di colori e di suoni che si mischiano freneticamente. Difficile dire da quanti giorni cammina, porta con sé pochi oggetti, una brocca d’acqua, un tamburo, un oboe e un piccolo clarinetto. Non mangia forse da parecchi giorni e durante i suoi spostamenti non pensa mai a nulla, se non alla prossima melodia da comporre, stavolta un’esibizione Kacheri, di quelle importanti e che gli avrebbero dato per i prossimi giorni un pezzo di pane e carne senza dover elemosinare tra le vie di qualche paese sperduto del Rajasthan indiano.
Fa caldo, troppo caldo, una goccia di sudore arriva fino al piede che scalzo strofina una pietra ai bordi dello strapiombo. I suoi piedi sono nudi, nudi come la terra rossastra che lo circonda prepotentemente in un assurdo odore intenso di umidità contaminante. Deve arrivare al villaggio prima che cali la sera , così perso tra i suoi pensieri riprende il cammino che lo avrebbe portato a valle. Si fa strada con un bastone per tagliare i rami secchi e pungenti, e con l’altra mano ogni tanto si appoggia o si dà lo slancio per saltare qualche buca profonda. Ormai il sole sta facendo capolino e la valle si avvicina sempre di più.
Sente finalmente qualche tamburo riecheggiare nella vallata e l’eco di alcune voci femminili. Si fa fatica ora a vedere, guarda a nord da dove provengono i suoni, si stropiccia gli occhi con le mani sporche e finalmente riesce ad intravedere il piccolo villaggio vicino al lago del Nandsamand Dame. In lontananza vede capanne schierate come fossero la schiena di un porcospino, con il tetto fatto di foglie di palma da datteri proveniente dagli altipiani. Lì, finalmente avrebbe trovato le tribù dei cacciatori.

Ci sono i cacciatori davanti alle capanne e uno strano silenzio, che di tanto in tanto, viene interrotto dai gemiti di una donna. Si sentono dei deboli canti e le donne nervosamente vanno avanti e indietro uscendo ed entrando da una capanna, la principale, più grossa delle altre e più curata; quella del capo tribù. Col bastone che ha usato per tutto il suo viaggio ora si aiuta per appoggiarsi su di un lato lasciando cadere il peso su tutta la gamba destra. Si ferma e guarda per attirare l’attenzione e osserva bene i cacciatori per capire a chi deve rivolgere per prima lo sguardo. Un uomo si accorge di lui, è alto, ha occhi di chi ha vissuto abbastanza per poter parlare, fa un cenno con la testa e lo invita ad avvicinarsi. In qualità di menestrello, la sua presenza è fondamentale. Il suo lavoro è importante, gli permette di vivere alla giornata e di non morire di fame. La musica è sempre stata la sua migliore amica, tutto ciò che ha, tutto ciò che non potrà mai abbandonarlo. I gemiti della donna si fanno sempre più forti e l’uomo che lo ha guardato prima gli fa cenno di iniziare a suonare. Lascia cadere il bastone per terra ed inizia ad improvvisare melodie di altri tempi, si accovaccia davanti la tenda, gambe incrociate, ed inizia a sprigionare come per magia note delicate e soavi, le stesse note che avrebbero di li a poco accompagnato la nascita del figlio del capo tribù.
L’umidità inizia a farsi sentire sempre di più insieme alla sensazione di malessere tra la gente del villaggio. Il menestrello suonando si guarda attorno, in uno stato di trans e ad occhi semi chiusi, sente il profumo delle donne che entrano ed escono dalla tenda con fasce sporche di sangue mentre i bambini più piccoli le guardano a loro volta con occhi inquieti. Al collo le donne hanno ghirlande di fiori freschi intrecciate con corone di foglie di margosa e di palma, un profumo strano, dolce e avvolgente che al tempo stesso gli svolazza sulla testa e lo schiaffeggia. Una ragazza interrompe quel legame di odori passando davanti al menestrello portando delle pelli di cervo, che probabilmente sarebbero servite come giaciglio per il neonato.
La sua musica riempie lo spazio circostante e copre gli urli della donna che ora si fanno sempre più forti. Una mano gli tocca la spalla, segno del capo tribù che l’esibizione deve finire, il menestrello così interrompe le note magiche.
Per un attimo accanto a lui non c’è altro che silenzio. Silenzio e caldo. Una goccia di sudore cade per terra e sembra rimbombare tutt’intorno.
Il silenzio viene rotto dal pianto di un bambino “I suoi occhi che hanno guardato i nemici sono ancora rossi mentre guardano il piccolo” pensa il menestrello osservando subito il capo tribù, ma non fa in tempo ad accennare un sorriso quando il capo gli si para davanti.
Il menestrello si alza con fatica, si inchina davanti il capo tribù che ora più che mai sembra essere rinato, scongiurata l’ipotesi che suo figlio non sarebbe nato vivo. Il menestrello aveva nel tempo assistito a molte nascite premature che nei casi più delicati finivano con la morte del bambino. Una donna esce dalla tenda e mostra il piccolo ancora sporco di sangue al padre e ai presenti che ormai si sono accalcati di fronte ed in prossimità del giaciglio. Gli uomini guardano da lontano e lo stesso capo tribù rimane ad una certa distanza.
Urli, mani e piedi che sbattono tra di loro in segno di approvazione e felicità. L’uomo non può ancora vedere la sua donna né avvicinarsi alle altre che l’hanno assistita durante il parto, e nel mentre va via con i suoi uomini, le altre donne del villaggio dopo aver unito il talismano di senape e il talismano dalla bocca tagliente fatto di foglie di margosa innalzano il fumo e fanno chiasso, bagnandosi nel lago, frastuono di suoni che conclude la fatica dell’impurità per aver generato figli.
உங்கள் இசை அதிசயமானது தான , la tua musica è magica” gli dice in tamil un bambino di pochi anni avvicinatosi timidamente. In mano ha dei fiori, e una gamba monca. Lui lo guarda sorpreso e con un gesto prende dalla sacca il clarinetto e glielo porge.
 “நன்றி, grazie, sebbene nessuno mai mi abbia detto che la mia musica fosse magica. Forse lo è davvero.”
“Non ho mai visto uno strumento così bello, solo mia mamma ne ha uno simile ma non posso toccarlo da quando ha saputo di aspettare un bambino. La tradizione ci impone di non toccare le donne col pancione a causa della loro impurità, per timore di contagio.”
Lo ricordava bene lui. Quando suo fratello era nato, il padre e tutti gli altri parenti del villaggio, non potevano avvicinarsi alle donne, frutto del peccato e sporche per aver generato figli. Ricordava ancora il padre avvicinarsi ad altre donne, soprattutto quando quella notte accompagnato dall’ingenuità di bambino, si era intrufolato dentro la povera tenda del padre scoprendolo disteso con un’altra donna. Non aveva solo quella e tutti lo sapevo e lo accettavano. Non capiva il perché di quell’assurda credenza, a lui piaceva solo l’idea di avere finalmente un fratellino con cui giocare. A quel fratellino ne giunsero ancora altri otto, ed ogni volta la stessa identica procedura. Quel bambino che ora ha davanti per un attimo gli ricorda suo fratello, molti anni prima. Vede nei suoi occhi la purezza e la semplicità di bambino aperto alla vita, spensierato, giocoso ma al tempo stesso intrappolato dalle regole della famiglia, intrappolato nella sua gamba monca che non gli permette di correre.
In un attimo il menestrello ritorna alla realtà scosso dalle urla giocose delle donne vicino al lago. Risa suscitate dalla gioia di potersi finalmente liberare dall’impurità che le ha tenute lontane dalle persone care, per timore di contagiare e per il divertimento che provocano giocando con l’acqua. Si spingono, si accarezzano la testa e pronte come in un agguato di schizzano l’acqua in pieno volto. Sorridono, sono belle, il petto nudo e bagnato riflette i pochi raggi del sole ancora visibili.
“Il nemico dello spirito maligno” dice improvvisamente il bambino guardando nel vuoto, e poi aggiunge “Mio padre mi dice sempre che l’acqua e la musica sono i nemici dello spirito maligno, guarda inizia a piovere”.
Qualche goccia di pioggia arriva sul naso del menestrello e poco a poco inizia a bagnare la terra. Un viavai di persone gli si scagliano davanti, piccole formiche impaurite che si muovono veloci. Le donne senza alcun interesse continuano a giocare nell’acqua e i bambini urlano di felicità. Solo gli uomini iniziano ad entrare nelle capanne per ripararsi dall’imminente tempesta.
Il bambino con in mano il suo clarinetto si allontana lentamente, cercando di raggiungere la capanna più vicina, movimenti meccanici, che ne fanno di lui un piccolo burattino arrugginito.
Finalmente arriva l’acqua. L’acqua che toglie ogni male, l’acqua fonte di vita, la regina che toglie ogni peccato e che ridà la purezza perduta. Il menestrello non aspetta altro e rimane immobile sotto la cascata di acqua che a poco a poco si fa sempre più violenta. Da un lato lui, uomo di una certa età e che ne dimostra almeno venti in più, un vecchio raggrinzito come la terra secca del Rajasthan e dall’altra le donne che continuano a fare chiasso.
Rimangono così, in un’immagine spettrale, il vecchio e le donne.
Le nubi grandi e gonfie riversano la pioggia pesante dal cielo spaccato ora dalla luce dei fulmini. I pochi bambini rimasti a giocare nel lago spaventati dai tuoni rientrano nelle tende lasciando le donne da sole. Un uomo esce dalla tenda e lancia un urlo verso il menestrello facendogli segno di ripararsi. Ma lui è lì, faccia verso il cielo, bagnato dalla testa ai piedi.
Anche questa volta la vita ha fatto il suo corso, anche questa volta grazie alla sua musica un nuovo arrivato è pronto alla vita. Le donne sono finalmente purificate dalla vergogna del parto. Così deve essere. Ancora un altro richiamo. Il menestrello fa finta di non sentire e rimane ancora immobile, per sentirsi addosso le ultime gocce del cielo. Tende una mano verso il vuoto.
Sorride.

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