Un applauso qua e
là.
Mani che si
muovono, sbattono l’una contro l’altra, mani che sembrano figlie di una
corrente selvaggia in un frastuono dissolto, lontano e impercettibile,
delicato.
Si chiude il
sipario e non rimane altro che il vuoto. Ciò che ha avuto luogo
finora nel gioco delle parti non è stato altro che pura illusione. Veronica lo
sa bene. Si guarda attorno lentamente, si aggiusta la sciarpa verde, la prende
con cura tra le sue mani sottili ed eleganti e la pone garbatamente sul collo
bianco.
Lo
spettacolo è finito, si sente appagata, con questo tipo di cose si sente al
sicuro, ecco perché uscendo e strofinando i suoi vestiti contro quelli della
massa che segue l’uscita del teatro, prende il rossetto e si ridipinge le
labbra.
E’
bella.
Tutti
la guardano, e lei lo sente, ha fatto dello sguardo degli altri il motivo del
suo essere. Esce all’aria aperta e non c’è nessuno ad aspettarla, ma piove e
questo la rende serena, proprio come quando cammina tra le stradine del suo
paese. Profumi, colori, rumori, talvolta prepotenti, potrebbe camminare bendata
e seguire la scia del profumo di casa sua. Ma ora è troppo distante. Deve fare
in fretta a pensare, non ha tempo perché
Berlino è lì, davanti a lei , la sta inghiottendo e non può stare da sola a
lungo. La bellezza le cammina a fianco e maledettamente il tempo continua a
tirarla e a strattonarla. E’ già arrivata a casa. Si ferma davanti al grosso
portone e guarda in alto. Il palazzo è colorato, vecchio, non si capisce se
stona con il resto delle case oppure se è l’unico che sembra vivere. Veronica fa
un lungo respiro ed entra.
Sulle
scale ci sono i soliti che parlano e la cappa di fumo rende il tutto ancora una
volta opprimente. Giuseppe è di sopra, lo sente suonare la chitarra. Strimpella
maldestramente qualcosa di melanconico, avrà i soliti capelli arruffati, pensa,
mentre con una mano si toglie le scarpe lasciandole distrattamente sugli
scalini. Il corridoio è blu, ci sono strane luci, e sul lato dove c’è il
ripostiglio le pareti iniziano ad aprirsi, come per accoglierla in un
abbraccio, tutte colorate, e con esso il bagno, un’orgia di colori prepotente e
fulminante, come Giuseppe, seduto a terra a petto nudo, mentre la guarda
affacciarsi alla porta della camera da letto, solo il suono della chitarra a
infrangere il silenzio nella stanza.
Hey
Jude. E’ proprio quella la canzone che sente e dei brividi le percorrono la
schiena. Nessuno mai le aveva dedicato quella canzone, dal vivo, suonata da
mani esperte, mani delicate, mani veloci , presenti.
Giuseppe
posa la chitarra a terra si avvicina e le stampa un bacio sulla fronte.
E’
lui il suo presente, è lui che ama.
Lo
abbraccia con forza e lo stringe a se mentre guarda la camera e il suo
soffitto, occhi persi nel vuoto, sapendo che il passato è ora alle sue spalle,
fuori da quella porta, lontano da quella città, lontano da tutti. Poi rammenta.
Ricorda
ancora quella sera. Ricorda ancora quella voce che canta per lei, le note perse
in quella stanza, il fumo negli occhi e la ragazza appoggiata sulla parete, una
lacrima che scende, la dolce melodia che si spegne tra le quattro mura di una
camera e la fine di ogni cosa, arrivata
tacitamente, silenziosamente, insinuata
tra le fessure delle finestre, proprio come il sipario che poco prima si era
chiuso davanti ai suoi occhi.
Un applauso qua e
là.
Mani che si
muovono, sbattono l’una contro l’altra, mani che sembrano figlie di una
corrente selvaggia in un frastuono dissolto, lontano e impercettibile, delicato.
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