lunedì 19 marzo 2012

BERLINO ALONE


Un applauso qua e là.
Mani che si muovono, sbattono l’una contro l’altra, mani che sembrano figlie di una corrente selvaggia in un frastuono dissolto, lontano e impercettibile, delicato.
Si chiude il sipario e non rimane altro che il vuoto. Ciò che ha avuto luogo finora nel gioco delle parti non è stato altro che pura illusione. Veronica lo sa bene. Si guarda attorno lentamente, si aggiusta la sciarpa verde, la prende con cura tra le sue mani sottili ed eleganti e la pone garbatamente sul collo bianco.
Lo spettacolo è finito, si sente appagata, con questo tipo di cose si sente al sicuro, ecco perché uscendo e strofinando i suoi vestiti contro quelli della massa che segue l’uscita del teatro, prende il rossetto e si ridipinge le labbra.
E’ bella.
Tutti la guardano, e lei lo sente, ha fatto dello sguardo degli altri il motivo del suo essere. Esce all’aria aperta e non c’è nessuno ad aspettarla, ma piove e questo la rende serena, proprio come quando cammina tra le stradine del suo paese. Profumi, colori, rumori, talvolta prepotenti, potrebbe camminare bendata e seguire la scia del profumo di casa sua. Ma ora è troppo distante. Deve fare in fretta a pensare,  non ha tempo perché Berlino è lì, davanti a lei , la sta inghiottendo e non può stare da sola a lungo. La bellezza le cammina a fianco e maledettamente il tempo continua a tirarla e a strattonarla. E’ già arrivata a casa. Si ferma davanti al grosso portone e guarda in alto. Il palazzo è colorato, vecchio, non si capisce se stona con il resto delle case oppure se è l’unico che sembra vivere. Veronica fa un lungo respiro ed entra.

Sulle scale ci sono i soliti che parlano e la cappa di fumo rende il tutto ancora una volta opprimente. Giuseppe è di sopra, lo sente suonare la chitarra. Strimpella maldestramente qualcosa di melanconico, avrà i soliti capelli arruffati, pensa, mentre con una mano si toglie le scarpe lasciandole distrattamente sugli scalini. Il corridoio è blu, ci sono strane luci, e sul lato dove c’è il ripostiglio le pareti iniziano ad aprirsi, come per accoglierla in un abbraccio, tutte colorate, e con esso il bagno, un’orgia di colori prepotente e fulminante, come Giuseppe, seduto a terra a petto nudo, mentre la guarda affacciarsi alla porta della camera da letto, solo il suono della chitarra a infrangere il silenzio nella stanza.
Hey Jude. E’ proprio quella la canzone che sente e dei brividi le percorrono la schiena. Nessuno mai le aveva dedicato quella canzone, dal vivo, suonata da mani esperte, mani delicate, mani veloci , presenti.
Giuseppe posa la chitarra a terra si avvicina e le stampa un bacio sulla fronte.
E’ lui il suo presente, è lui che ama.
Lo abbraccia con forza e lo stringe a se mentre guarda la camera e il suo soffitto, occhi persi nel vuoto, sapendo che il passato è ora alle sue spalle, fuori da quella porta, lontano da quella città, lontano da tutti. Poi rammenta.
Ricorda ancora quella sera. Ricorda ancora quella voce che canta per lei, le note perse in quella stanza, il fumo negli occhi e la ragazza appoggiata sulla parete, una lacrima che scende, la dolce melodia che si spegne tra le quattro mura di una camera  e la fine di ogni cosa, arrivata tacitamente, silenziosamente,  insinuata tra le fessure delle finestre, proprio come il sipario che poco prima si era chiuso davanti ai suoi occhi.


Un applauso qua e là.
Mani che si muovono, sbattono l’una contro l’altra, mani che sembrano figlie di una corrente selvaggia in un frastuono dissolto, lontano e impercettibile, delicato.

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