mercoledì 21 marzo 2012

THE SOFT VOICES DIE


C’è un unico posto dove andare. Le impronte sul terreno si fanno sempre più pesanti e la neve riflette tutto il suo candore.
Le voci si fermano.
Il respiro si fa sempre più affannato mentre il rumore della notte è lieve, incombe nell’aria circostante e nel mentre protegge. Il suo cappello le scivola dalla testa, lei cade violentemente ormai sfinita, dopo una corsa che le ha tolto le ultime forze rimaste nelle sue esili gambe, vicino ad un albero. Prende della neve e con delicatezza l’avvicina alla bocca per sentirsi ancora viva perché il cuore le è arrivato in gola, brucia. È fredda, troppo fredda per poter essere reale, il suo respiro peggiora e nel  mentre sente ancora il rumore dei mitra in lontananza che ricordano ramoscelli spezzati sotto i pesanti scarponi invernali. Pensa a dove potersi nascondere. La guerra ormai le ha strappato ogni cosa, anche i sogni, quelli più semplici, quelli che a detta di sua madre potevano essere realizzati nonostante le difficoltà. Inizia a nevicare e tutto diventa surreale. Non riesce a comprendere la realtà dal sogno, ormai è troppo tardi. Guarda con occhi sbarrati un lupo che furtivamente le si è avvicinato. E’ bianco come la neve, forse ha paura, proprio come lei. Si guardano a lungo, come se si conoscessero, ed entrambi si scambiano le rispettive vite. Lei allunga una mano verso il vuoto ormai priva di forze ed il lupo scompare. Si sentono solo i rispettivi passi ovattati andare via e qualche pezzo di neve galleggiare in aria. Chiude gli occhi.
In quei secondi si ferma ancora una volta, lontana da tutti, lontana dalla vita. Il cappello è ancora lì, rosso come il fuoco, lo aveva comprato a Stoccolma durante una vacanza. Ripensa al ballo di quella sera, si rivede in quel bosco, dietro casa sua, in mezzo alla neve sulle note di Čajkovskij, lui le prende la mano con gentilezza, lei capelli raccolti e labbra rosse, iniziano a danzare leggeri sapendo che l’amore che li lega non è indistruttibile, l’amore vero proprio perché vero, sarebbe finito, lo sapevano entrambi. Lui arruolato nell’esercito, lei colpevole di aver tradito la patria. Ma il bosco dietro casa sua era un mondo a parte, lì potevano essere solo Alaina e Simon, nudi di ogni colpevolezza. Un passo, due passi, su quella neve che li rende leggeri e candidi. Ma lei è lì, attanagliata dal freddo, non riesce a muoversi, non capisce cosa sta succedendo, vorrebbe che la notte per un attimo potesse tacere.
-          Quando verranno a prenderci, promettimi che farai di tutto per salvarti - continuava a ripeterle la madre pochi giorni prima dell’inizio dei bombardamenti.
-          Non dire certe cose. Non ti lascerò sola. -  Le aveva detto con le lacrime agli occhi.
Ricorda ancora quelle parole così taglienti, dette tra le quattro mura di una casa che a malapena si reggeva in piedi. Ricorda di non aver saputo mantenere la promessa. Una promessa mantenuta o una pallottola in corpo, nel migliore dei casi. In cuor suo sapeva di poter scegliere solo tra quelle impietose prospettive.
Il sangue continua a scendere, la lucidità la sta abbandonando, và e viene come il sole quando filtra dai rami degli alberi, debole, inconsistente. Poi all'improvviso sente qualcuno avvicinarsi, non le importa di sapere se sono venuti a darle il colpo di grazia. Che sia veloce, fate veloce vi prego. Chiede perdono alla madre. Non ha salvato né l’una né l’altra. I passi si fermano, qualcuno la guarda dall'alto, sente il respiro affaticato su di lei, scarponi sulla neve che sanno di soldato.
-          Alaina sei tu - dice l’uomo buttandosi per terra e prendendola tra le braccia. La guarda sconvolto, è ancora così bella anche mentre la morte le aleggia vicino.
Non riesce ad aprire gli occhi Alaina. I raggi del sole sono scomparsi, ora è buio intorno a lei. Può solo sentire una debole voce e un profumo a lei conosciuto. Conosce bene quel profumo, sà a chi appartiene. Lo ricorda da quella notte, da quando avevano danzato assieme. Forse era venuto per salvarla ma era troppo tardi.
Lui la stringe a sé, biascica parole di dolore che ormai nessuno può sentire, parole che ormai non hanno importanza, parole che vengono assorbite dall’aria circostante proprio come fa il sangue mentre si increspa tra la neve candida.
Alaina stavolta non sente nulla. Rimangono solo i suoi ultimi pensieri nell’aria e il rumore dei mitra, che in lontananza ora sembrano squarciare il cielo.

Che l'ottimismo sia il profumo della vita...

Ciao Antonio...oggi sei scomparso...lo stesso giorno in cui anche Alda ci ha lasciati...forse i poeti si scelgono a vicenda, per poter scrivere ancora, chissà, chissà dove.

Vi lascio un video,

Intervista a Tonino Guerra, il mondo dei giovani.


Qui sotto alcune delle sue frasi più belle e significative:

La luna è l'unico astro che nasce dietro le montagne e tramonta dentro di noi. 


Un vecchio che visse solo in un villaggio abbandonato, visto che ero in pena per lui, mi ha gridato: "Ricordati che la solitudine tiene compagnia". 


Non ho mai tempo di rispondere alle lettere che mi scriverai. 


Tutte le volte che preparo un pacco, finisce che mi trovo chiuso dentro. 


Se faccio finta di fumare mi cade la cenere addosso. 


Tutte le volte che sto per affogare mi dimentico di chiedere aiuto. 


C'è chi non sa dove andare e sta correndo per andarci subito. 


Anch'io potrei diventare noioso se non lo fossi già. 


Chi si innamora si innamora di se stesso, chi si uccide uccide un altro. 


Le cose che si perdono non hanno voglia di farsi trovare. 


Se noi imparassimo a parlare, gli animali ci capirebbero meglio. 


Quando le cose mi cadono dalle mani, non è colpa mia, è colpa delle cose. 

Sono nata il ventuno a primavera

Mi sembra doveroso lasciare su questa pagina, che sarà anche usata per omaggiare i grandi della letteratura e della prosa, un piccolo omaggio ad una delle più geniali poetesse del nostro paese.
Alda Merini.




Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera. 





Grazie Alda.

martedì 20 marzo 2012

KACHERI




Il sole è quasi basso. In lontananza non si vede altro che una fitta vegetazione, sotto i suoi piedi, uno strapiombo. La roccia è scura e i raggi che la colpiscono la rendono rossa e vivida come il fuoco in un gioco di colori e di suoni che si mischiano freneticamente. Difficile dire da quanti giorni cammina, porta con sé pochi oggetti, una brocca d’acqua, un tamburo, un oboe e un piccolo clarinetto. Non mangia forse da parecchi giorni e durante i suoi spostamenti non pensa mai a nulla, se non alla prossima melodia da comporre, stavolta un’esibizione Kacheri, di quelle importanti e che gli avrebbero dato per i prossimi giorni un pezzo di pane e carne senza dover elemosinare tra le vie di qualche paese sperduto del Rajasthan indiano.
Fa caldo, troppo caldo, una goccia di sudore arriva fino al piede che scalzo strofina una pietra ai bordi dello strapiombo. I suoi piedi sono nudi, nudi come la terra rossastra che lo circonda prepotentemente in un assurdo odore intenso di umidità contaminante. Deve arrivare al villaggio prima che cali la sera , così perso tra i suoi pensieri riprende il cammino che lo avrebbe portato a valle. Si fa strada con un bastone per tagliare i rami secchi e pungenti, e con l’altra mano ogni tanto si appoggia o si dà lo slancio per saltare qualche buca profonda. Ormai il sole sta facendo capolino e la valle si avvicina sempre di più.
Sente finalmente qualche tamburo riecheggiare nella vallata e l’eco di alcune voci femminili. Si fa fatica ora a vedere, guarda a nord da dove provengono i suoni, si stropiccia gli occhi con le mani sporche e finalmente riesce ad intravedere il piccolo villaggio vicino al lago del Nandsamand Dame. In lontananza vede capanne schierate come fossero la schiena di un porcospino, con il tetto fatto di foglie di palma da datteri proveniente dagli altipiani. Lì, finalmente avrebbe trovato le tribù dei cacciatori.

Ci sono i cacciatori davanti alle capanne e uno strano silenzio, che di tanto in tanto, viene interrotto dai gemiti di una donna. Si sentono dei deboli canti e le donne nervosamente vanno avanti e indietro uscendo ed entrando da una capanna, la principale, più grossa delle altre e più curata; quella del capo tribù. Col bastone che ha usato per tutto il suo viaggio ora si aiuta per appoggiarsi su di un lato lasciando cadere il peso su tutta la gamba destra. Si ferma e guarda per attirare l’attenzione e osserva bene i cacciatori per capire a chi deve rivolgere per prima lo sguardo. Un uomo si accorge di lui, è alto, ha occhi di chi ha vissuto abbastanza per poter parlare, fa un cenno con la testa e lo invita ad avvicinarsi. In qualità di menestrello, la sua presenza è fondamentale. Il suo lavoro è importante, gli permette di vivere alla giornata e di non morire di fame. La musica è sempre stata la sua migliore amica, tutto ciò che ha, tutto ciò che non potrà mai abbandonarlo. I gemiti della donna si fanno sempre più forti e l’uomo che lo ha guardato prima gli fa cenno di iniziare a suonare. Lascia cadere il bastone per terra ed inizia ad improvvisare melodie di altri tempi, si accovaccia davanti la tenda, gambe incrociate, ed inizia a sprigionare come per magia note delicate e soavi, le stesse note che avrebbero di li a poco accompagnato la nascita del figlio del capo tribù.
L’umidità inizia a farsi sentire sempre di più insieme alla sensazione di malessere tra la gente del villaggio. Il menestrello suonando si guarda attorno, in uno stato di trans e ad occhi semi chiusi, sente il profumo delle donne che entrano ed escono dalla tenda con fasce sporche di sangue mentre i bambini più piccoli le guardano a loro volta con occhi inquieti. Al collo le donne hanno ghirlande di fiori freschi intrecciate con corone di foglie di margosa e di palma, un profumo strano, dolce e avvolgente che al tempo stesso gli svolazza sulla testa e lo schiaffeggia. Una ragazza interrompe quel legame di odori passando davanti al menestrello portando delle pelli di cervo, che probabilmente sarebbero servite come giaciglio per il neonato.
La sua musica riempie lo spazio circostante e copre gli urli della donna che ora si fanno sempre più forti. Una mano gli tocca la spalla, segno del capo tribù che l’esibizione deve finire, il menestrello così interrompe le note magiche.
Per un attimo accanto a lui non c’è altro che silenzio. Silenzio e caldo. Una goccia di sudore cade per terra e sembra rimbombare tutt’intorno.
Il silenzio viene rotto dal pianto di un bambino “I suoi occhi che hanno guardato i nemici sono ancora rossi mentre guardano il piccolo” pensa il menestrello osservando subito il capo tribù, ma non fa in tempo ad accennare un sorriso quando il capo gli si para davanti.
Il menestrello si alza con fatica, si inchina davanti il capo tribù che ora più che mai sembra essere rinato, scongiurata l’ipotesi che suo figlio non sarebbe nato vivo. Il menestrello aveva nel tempo assistito a molte nascite premature che nei casi più delicati finivano con la morte del bambino. Una donna esce dalla tenda e mostra il piccolo ancora sporco di sangue al padre e ai presenti che ormai si sono accalcati di fronte ed in prossimità del giaciglio. Gli uomini guardano da lontano e lo stesso capo tribù rimane ad una certa distanza.
Urli, mani e piedi che sbattono tra di loro in segno di approvazione e felicità. L’uomo non può ancora vedere la sua donna né avvicinarsi alle altre che l’hanno assistita durante il parto, e nel mentre va via con i suoi uomini, le altre donne del villaggio dopo aver unito il talismano di senape e il talismano dalla bocca tagliente fatto di foglie di margosa innalzano il fumo e fanno chiasso, bagnandosi nel lago, frastuono di suoni che conclude la fatica dell’impurità per aver generato figli.
உங்கள் இசை அதிசயமானது தான , la tua musica è magica” gli dice in tamil un bambino di pochi anni avvicinatosi timidamente. In mano ha dei fiori, e una gamba monca. Lui lo guarda sorpreso e con un gesto prende dalla sacca il clarinetto e glielo porge.
 “நன்றி, grazie, sebbene nessuno mai mi abbia detto che la mia musica fosse magica. Forse lo è davvero.”
“Non ho mai visto uno strumento così bello, solo mia mamma ne ha uno simile ma non posso toccarlo da quando ha saputo di aspettare un bambino. La tradizione ci impone di non toccare le donne col pancione a causa della loro impurità, per timore di contagio.”
Lo ricordava bene lui. Quando suo fratello era nato, il padre e tutti gli altri parenti del villaggio, non potevano avvicinarsi alle donne, frutto del peccato e sporche per aver generato figli. Ricordava ancora il padre avvicinarsi ad altre donne, soprattutto quando quella notte accompagnato dall’ingenuità di bambino, si era intrufolato dentro la povera tenda del padre scoprendolo disteso con un’altra donna. Non aveva solo quella e tutti lo sapevo e lo accettavano. Non capiva il perché di quell’assurda credenza, a lui piaceva solo l’idea di avere finalmente un fratellino con cui giocare. A quel fratellino ne giunsero ancora altri otto, ed ogni volta la stessa identica procedura. Quel bambino che ora ha davanti per un attimo gli ricorda suo fratello, molti anni prima. Vede nei suoi occhi la purezza e la semplicità di bambino aperto alla vita, spensierato, giocoso ma al tempo stesso intrappolato dalle regole della famiglia, intrappolato nella sua gamba monca che non gli permette di correre.
In un attimo il menestrello ritorna alla realtà scosso dalle urla giocose delle donne vicino al lago. Risa suscitate dalla gioia di potersi finalmente liberare dall’impurità che le ha tenute lontane dalle persone care, per timore di contagiare e per il divertimento che provocano giocando con l’acqua. Si spingono, si accarezzano la testa e pronte come in un agguato di schizzano l’acqua in pieno volto. Sorridono, sono belle, il petto nudo e bagnato riflette i pochi raggi del sole ancora visibili.
“Il nemico dello spirito maligno” dice improvvisamente il bambino guardando nel vuoto, e poi aggiunge “Mio padre mi dice sempre che l’acqua e la musica sono i nemici dello spirito maligno, guarda inizia a piovere”.
Qualche goccia di pioggia arriva sul naso del menestrello e poco a poco inizia a bagnare la terra. Un viavai di persone gli si scagliano davanti, piccole formiche impaurite che si muovono veloci. Le donne senza alcun interesse continuano a giocare nell’acqua e i bambini urlano di felicità. Solo gli uomini iniziano ad entrare nelle capanne per ripararsi dall’imminente tempesta.
Il bambino con in mano il suo clarinetto si allontana lentamente, cercando di raggiungere la capanna più vicina, movimenti meccanici, che ne fanno di lui un piccolo burattino arrugginito.
Finalmente arriva l’acqua. L’acqua che toglie ogni male, l’acqua fonte di vita, la regina che toglie ogni peccato e che ridà la purezza perduta. Il menestrello non aspetta altro e rimane immobile sotto la cascata di acqua che a poco a poco si fa sempre più violenta. Da un lato lui, uomo di una certa età e che ne dimostra almeno venti in più, un vecchio raggrinzito come la terra secca del Rajasthan e dall’altra le donne che continuano a fare chiasso.
Rimangono così, in un’immagine spettrale, il vecchio e le donne.
Le nubi grandi e gonfie riversano la pioggia pesante dal cielo spaccato ora dalla luce dei fulmini. I pochi bambini rimasti a giocare nel lago spaventati dai tuoni rientrano nelle tende lasciando le donne da sole. Un uomo esce dalla tenda e lancia un urlo verso il menestrello facendogli segno di ripararsi. Ma lui è lì, faccia verso il cielo, bagnato dalla testa ai piedi.
Anche questa volta la vita ha fatto il suo corso, anche questa volta grazie alla sua musica un nuovo arrivato è pronto alla vita. Le donne sono finalmente purificate dalla vergogna del parto. Così deve essere. Ancora un altro richiamo. Il menestrello fa finta di non sentire e rimane ancora immobile, per sentirsi addosso le ultime gocce del cielo. Tende una mano verso il vuoto.
Sorride.

10 MINUTI DI TRAGITTO LOW COST

Mentre cammino mi chiedo se è stata la cosa giusta da fare. Tentare di formulare chissà quale soluzione, e poi semplicemente camminare senza trovarne una.
Le vetrine del centro sembra corrano via per poi non tornare più indietro, arrivi all'incrocio, guardi a destra mentre aspetti il verde e ritrovi la stessa insegna del negozio precedente. Buffo, incrocio qualche sguardo, penso forse che oggi ho qualcosa che non vada, ma non m'importa, continuo a mantenere lo stesso passo di prima. Avrei dovuto accettare? E il sogno che ho fatto? Sembra buffo anche questo, quando il giorno dopo un giorno qualsiasi tra gli infiniti, anonimi, fra una risata e un'altra con i compagni dell'università, arriva una ragazza che non ho mai visto.
Sorride, parla con un amico e ci scambiamo qualche parola. Stesso viso, stessi atteggiamenti, una copia distorta di me stessa che mi fa male. Il mio viso assume un'espressione singolare nel suo genere. Probabilmente se mi dovessi guardare allo specchio non vedrei me stessa. Poi istantaneamente, come se quello che ho visto fosse solo suggestione, sorrido svogliatamente, e non dando importanza ad un probabile ricambio, mi volto verso il cancello e vado via. Anche le facce sconosciute, possono trafiggerci senza un motivo. 
Vorrei poter dire tante cose adesso che cammino. Queste maledette Camel fanno schifo, e ora come ora vorrei vedere il mondo in bianco e nero. Vorrei schierarmi da una parte, andare a destra o sinistra. Invece oggi c'è il sole, peccato che il cieco davanti a me non lo possa vedere. Gli dico il numero del tram e un passante lo aiuta a salire con una certa difficoltà, data la mole del vecchio. "Mi dia solo il braccio!"  gli dice con voce isterica, quella voce che appartiene a chi si è svegliato solo perché la vita glielo impone. Un uomo che sà di poter vedere solo nero nella sua vita. 
Io posso scegliere. Posso scegliere i colori che userò per scrivere oggi, posso scegliere il destino della mia giornata, oggi.
Oggi.
Mi rendo conto che il tempo vola sempre di più, alcune volte vorrei tornare indietro per ritoccare scorci di vita non andati a buon fine. Ritoccarli, o vomitarci sopra. Ma sono già tornata indietro a Palazzo Nuovo, aula 34, corridoio, e intanto la cinepresa mentale continua a filmare tutto, sala macchinette. Cappuccino macchiato con cioccolato. Bleah. + quattro di zucchero. Quella dietro di me è brutta da far paura. Monociglioebaffi, che detta così, dà proprio il senso del prolungamento, neanche fosse un uomo. Rumore della macchinetta, è pronta la bevanda a 30 cent. Prendo in mano il bicchierino e ci guardo dentro. Non mi ha dato la stecchetta per girare la brodaglia. Occhi al cielo e qualche insulto.
Qualche battuta con le solite facce che si vedono in giro, esco, ultima siga, tram, pullman, incidente e poi si riparte.
Mi tolgo le scarpe e mi butto sul letto. Ripenso a che giornata sia stata questa. A quale mia maschera ho indossato oggi, e quelle che hanno indossato gli altri.
Poi apro il mio cuore e mi ci tuffo dentro.
L'unico posto dove nessuno può piangere.

VITA

Come un turbine
la vita gocciola
verso un cielo di stelle, fra nuvole azzurre
e foglie portate dal vento
lontane
profonde
come la mia vita
in un lago di pace.

PETALI DI VITA

Sentire il tuo odore
e assaporare con deboli tocchi di lingua
il gusto dolce della tua pelle

partendo dai sogni, gelosamente custoditi in testa
per poi discendere, là dove muoiono i miei ideali
dove mi apro a ciò che divide il verbo dal gesto
l'uomo dall'animale
dove non esistono né soste
né pace.

Gentile
come una bambina
come una madre
come un delicato fiore da campo.

Amore,
domani

Quando fuori la nebbia invade il letto
e il sole a poco s'innalza
riportandomi su quei sentieri
dove ieri raccoglievi petali di vita.

30 - agosto - 2007

lunedì 19 marzo 2012

BERLINO ALONE


Un applauso qua e là.
Mani che si muovono, sbattono l’una contro l’altra, mani che sembrano figlie di una corrente selvaggia in un frastuono dissolto, lontano e impercettibile, delicato.
Si chiude il sipario e non rimane altro che il vuoto. Ciò che ha avuto luogo finora nel gioco delle parti non è stato altro che pura illusione. Veronica lo sa bene. Si guarda attorno lentamente, si aggiusta la sciarpa verde, la prende con cura tra le sue mani sottili ed eleganti e la pone garbatamente sul collo bianco.
Lo spettacolo è finito, si sente appagata, con questo tipo di cose si sente al sicuro, ecco perché uscendo e strofinando i suoi vestiti contro quelli della massa che segue l’uscita del teatro, prende il rossetto e si ridipinge le labbra.
E’ bella.
Tutti la guardano, e lei lo sente, ha fatto dello sguardo degli altri il motivo del suo essere. Esce all’aria aperta e non c’è nessuno ad aspettarla, ma piove e questo la rende serena, proprio come quando cammina tra le stradine del suo paese. Profumi, colori, rumori, talvolta prepotenti, potrebbe camminare bendata e seguire la scia del profumo di casa sua. Ma ora è troppo distante. Deve fare in fretta a pensare,  non ha tempo perché Berlino è lì, davanti a lei , la sta inghiottendo e non può stare da sola a lungo. La bellezza le cammina a fianco e maledettamente il tempo continua a tirarla e a strattonarla. E’ già arrivata a casa. Si ferma davanti al grosso portone e guarda in alto. Il palazzo è colorato, vecchio, non si capisce se stona con il resto delle case oppure se è l’unico che sembra vivere. Veronica fa un lungo respiro ed entra.

Sulle scale ci sono i soliti che parlano e la cappa di fumo rende il tutto ancora una volta opprimente. Giuseppe è di sopra, lo sente suonare la chitarra. Strimpella maldestramente qualcosa di melanconico, avrà i soliti capelli arruffati, pensa, mentre con una mano si toglie le scarpe lasciandole distrattamente sugli scalini. Il corridoio è blu, ci sono strane luci, e sul lato dove c’è il ripostiglio le pareti iniziano ad aprirsi, come per accoglierla in un abbraccio, tutte colorate, e con esso il bagno, un’orgia di colori prepotente e fulminante, come Giuseppe, seduto a terra a petto nudo, mentre la guarda affacciarsi alla porta della camera da letto, solo il suono della chitarra a infrangere il silenzio nella stanza.
Hey Jude. E’ proprio quella la canzone che sente e dei brividi le percorrono la schiena. Nessuno mai le aveva dedicato quella canzone, dal vivo, suonata da mani esperte, mani delicate, mani veloci , presenti.
Giuseppe posa la chitarra a terra si avvicina e le stampa un bacio sulla fronte.
E’ lui il suo presente, è lui che ama.
Lo abbraccia con forza e lo stringe a se mentre guarda la camera e il suo soffitto, occhi persi nel vuoto, sapendo che il passato è ora alle sue spalle, fuori da quella porta, lontano da quella città, lontano da tutti. Poi rammenta.
Ricorda ancora quella sera. Ricorda ancora quella voce che canta per lei, le note perse in quella stanza, il fumo negli occhi e la ragazza appoggiata sulla parete, una lacrima che scende, la dolce melodia che si spegne tra le quattro mura di una camera  e la fine di ogni cosa, arrivata tacitamente, silenziosamente,  insinuata tra le fessure delle finestre, proprio come il sipario che poco prima si era chiuso davanti ai suoi occhi.


Un applauso qua e là.
Mani che si muovono, sbattono l’una contro l’altra, mani che sembrano figlie di una corrente selvaggia in un frastuono dissolto, lontano e impercettibile, delicato.
Benvenuti a tutti nel mio blog!
Qui troverete tutti i miei scritti, sotto ho postato il mio ultimo racconto intitolato Kacheri.
Con un po di tempo ( e pratica) cercherò di migliorare la pagina e pubblicare più cose possibili...spero di vostro gradimento!


Un saluto


Digsy